Ines Ibbou ha sbagliato bersaglio: Thiem ha ragione



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Ines Ibbou ha sbagliato bersaglio: Thiem ha ragione

La lettera aperta di Ines Ibbou ha fatto il giro del mondo. Affidandosi all'agenzia MAG, la giovane algerina ha realizzato un filmato in cui si rivolge a Dominic Thiem. Qualche settimana fa, l'austriaco aveva manifestato la sua contrarietà a un fondo per aiutare i tennisti peggio classificati.

“Conosco il circuito Futures, ci ho giocato per due anni. Lì ci sono molti giocatori che non si dedicano interamente allo sport. Non vedo perché dovrei dare i miei soldi a queste persone. Preferisco donare a persone o a istituzioni che ne hanno veramente bisogno”.

Un paio di giorni dopo, l'austriaco ha parzialmente corretto il tiro, sostenendo che le sue frasi erano state interpretate come troppo “violente”. “In realtà sono d'accordo ad aiutare chi sta peggio di noi, ma non in maniera indiscriminata.

Semplicemente, credo sia meglio aiutare chi farebbe fruttare questo denaro. E comunque ci sono persone e organizzazioni che hanno più bisogno di sostegno rispetto a semplici sportivi”. Difficile dargli torto, ma ormai il passaparola – amplificato dai social – si era messo in moto.

E Ines Ibbou ha scelto di far conoscere il suo pensiero. Lo ha fatto in modo originale, con un filmato professionale. I videomakers hanno pestato l'acceleratore emotivo: immagini al rallentatore e musica solenne, come a rafforzare il messaggio lanciato dalla Ibbou, ventuno anni, n.620 WTA.

In nove minuti, l'algerina esprime due concetti: una malcelata indignazione per le parole di Thiem e il desiderio di raccontare le sue infinite difficoltà per andare avanti, essendo una giovane donna algerina e non un giovane uomo austriaco (e proveniente da una famiglia di tennisti).

Nella parte finale, chiude con una frase a effetto: “Caro Dominic, non ti abbiamo chiesto niente a parte il rispetto per i nostri sacrifici. I giocatori come te sono quelli che tengono vivi i miei sogni. Per favore, non rovinarli”.

Per buona parte del filmato, la Ibbou racconta la sua storia. E lo fa con orgoglio: cresciuta nei sobborghi dell'Algeria, in una famiglia che non aveva niente a che vedere con il tennis, “Col tempo ho realizzato quanto sia stata fortunata ad avere genitori come i miei, che hanno fatto tanti sacrifici per permettermi di inseguire il mio sogno”.

Ha poi illustrato le difficoltà incontrate per giocare a tennis in Algeria. Aveva 6 anni quando ha impugnato per la prima volta una racchetta, innamorandosi all'istante. “Ma in Algeria ci sono pochissimi tornei giovanili, e nessun torneo professionistico.

Inoltre non ci sono allenatori di livello e non esiste un solo campo al coperto. Non so come sia da te, caro Dominic, ma se da noi piove per una settimana puoi allenare il rovescio soltanto in palestra. Per non parlare della superficie dei campi, non la sappiamo neanche definire...

'è Africa', dicono. Tutto questo non mi ha impedito di diventare una delle migliori della mia età a 14 anni e conquistare i miei primi punti WTA, vincendo un torneo ITF. Mica male, eh? Non sono entrata tra le top-10 come te, ma sono stata n.23 nella classifica mondiale junior.

Dicevano che ero un miracolo, nessuno ce l'aveva fatto prima di me”. Ma poi sono arrivate le difficoltà: la Ibbou recrimina, sostiene che se avesse fatto parte del “magico mondo” di Thiem avrebbe avuto sponsor e federazioni pronte a darle una mano.

Menziona una serie di marchi di racchette, dicendo che in Algeria non esistono proprio. “A parte qualche piccolo sostegno privato, ho ricevuto appena il minimo indispensabile per partecipare agli Slam junior”. Il passaggio tra le professioniste è stato durissimo, anche a causa di qualche infortunio.

“Se avessi avuto un certo budget a disposizione, probabilmente sarebbe cambiata tutta la mia vita. Ma sono stata abbastanza fortunata da trovare qualcuno che mi desse una mano. Ho trovato persone che mi hanno garantito il minimo per andare avanti: cibo per mangiare e un posto dove dormire, oltre ad aiutarmi con l'attrezzatura”.

A complicarle la vita, la riforma ITF (poi abolita, ma questo nel video non lo dice) che per qualche mese ha ostacolato l'accesso al circuito per gli aspiranti professionisti. Non si è arresa, si è costruita un ranking accettabile nonostante l'assenza di uno staff tutto per sé: la Ibbou non ha coach, preparatore, fisioterapista, mental coach. “Sono una donna sola che gira il mondo, con viaggi spezzati in tre parti nel tentativo di trovare i biglietti più economici.

Faccio un mucchio di sacrifici anche soltanto per ottenere un visto, non beneficio del trattato di Shenghen. Significa che mi serve un visto per quasi ogni Paese. Caro Dominic, ti capita di cambiare superficie ogni settimana? Ti capita di finire un torneo con i buchi nelle scarpe?”.

La parte finale della lettera alimenta le emozioni: la Ibbou auspica di potersi permettere, un giorno, di fare un regalo ai suoi genitori, e invidia a Thiem la possibilità di vedere spesso i suoi e di poter condividere le festività con loro.

“I sacrifici fanno parte del gioco, ma dovrebbe essere il campo a decidere il mio destino, non i miei soldi. E questo non è giusto. Eppure combatto ogni giorno senza lamentarmi, in silenzio”. A chiudere, ribadisce che nessuno ha chiesto niente a Thiem, ma che l'iniziativa di un fondo benefico è arrivata da tennisti generosi che hanno a cuore il futuro del loro sport.

Tutto bello, persino emozionante. L'impressione, tuttavia, è che la Ibbou abbia sbagliato bersaglio. La lettera aperta non è un'accusa diretta a Thiem, eppure è densa di frecciate. È piena di passaggi in cui si cerca di farlo sentire in colpa.

Il fatto è che non è colpa di Thiem se la Ibbou è nata in Algeria. E non è colpa di Thiem se ha bisogno di un visto per quasi ogni Paese in cui si reca a giocare. La sua è una bella storia di ispirazione ed è giusto augurarle ogni bene.

Come detto, il suo sfogo ha già ottenuto un risultato: il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune è intervenuto su Twitter, scrivendo: “L'Algeria non può perdere un talento sportivo come Ines Ibbou, che è molto giovane ed è un fiore che sta sbocciando, in una disciplina in cui raramente gli algerini eccellono.

Hai tutto il mio sostegno, il mio supporto e gli auguri di ogni successo”. Anche Venus Williams e Nick Kyrgios hanno espresso la loro vicinanza. Chissà se alle parole seguiranno fatti, ovvero aiuti concreti, direttamente dallo Stato o magari da qualche azienda che ha preso a cuore la sua storia.

Da quelle parti, hanno già dimostrato che è possibile emergere atleti come la tunisina Ons Jabeur e l'egiziano Mohamed Safwat, provenienti da realtà simili e altrettanto complicate. Senza essere brutali come Arina Rodionova (“Thiem può fare quello che vuole con i suoi soldi, è stata l'ITF a rovinare tutto”), va sottolineato che l'austriaco aveva detto la verità: chi frequenta il circuito ITF sa che tanti giocatori, in effetti, non hanno la giusta professonalità.

Si adagiano in una realtà di semi-professionismo che tarda l'ingresso nel lavoro, nella “vita vera”. Qualcuno, più realista di altri, ha ammesso che i tornei ITF non sono esattamente un inferno, ma un valido strumento per continuare a mantenersi grazie a un hobby.

Se è vero che i Futures non garantiscono guadagni, i tornei “Open” e le gare a squadre permettono un dignitoso sostentamento. Se il circuito ITF fosse davvero un inferno, ci sarebbero migliaia di tornei in giro per il mondo? Ci sarebbero centinaia di giocatori che insistono per anni e anni senza mai fare il salto di qualità? Forse sì, ma forse no.

Se davvero fosse una schifezza, molti smetterebbero prima. Thiem lo sa bene, avendolo frequentato per un paio d'anni, con lunghe trasferte in Turchia, Israele e Marocco. Mentre lui andava a letto alle 21 e passava ore e ore tra campo e palestra, si può dire altrettanto per gli altri? Forse sì, forse no.

E poi c'è una dura realtà: per come è strutturato, il tennis è una giungla. Mors tua, vita mea, direbbero i latini. Non c'è spazio per ideali socialisti o il concetto di uguaglianza: chi vince sale e guadagna, chi perde rimane al palo.

Fino a oggi, i risultati non sono troppo generosi con la Ibbou. Avesse vinto più partite, oltre a un ranking migliore, avrebbe magari ricevuto qualche offerta di sponsorizzazione. Certo, se avesse avuto un “capitale di partenza” migliore (sponsor, comodità, strutture), forse oggi sarebbe più in alto.

Ma questo non è colpa di Thiem. Ed è ingeneroso lasciar intendere che l'austriaco non abbia il massimo rispetto per chi sta in basso. Semplicemente, lo riserva a chi lotta e suda per davvero. E poi, perdonate la franchezza: non sta scritto da nessuna parte che bisogna giocare per forza a tennis.

Se la realtà è più forte di noi, arriva il momento in cui bisogna accettarla. Anche se è ingiusta.

Dominic Thiem