È impossibile non provare simpatia per Mohamed Safwat. Basta già il suo coraggio, quella voglia feroce di diventare un tennista proveniendo da un Paese complicato. In Egitto è dura, ma lui possiede la qualità più importante: la testardaggine.
E poi c'è qualche nota autobiografica, peraltro molto recente. Soltanto quattro mesi fa, l'egiziano era intorno al numero 250 ATP e cercava punti al Challenger di Firenze. Lo intervistai dopo una bella vittoria contro Robin Haase: ricordava perfettamente di avermi già parlato, un anno e mezzo prima, nella pancia del Pala Agnelli di Bergamo.
Anche per questo, forse, mi ha perdonato una gaffe mica da ridere: “Lei è tua moglie?” dissi, indicando la giovane donna che lo accompagna in giro per il circuito. D'altra parte, le sue note biografiche sono chiare: il 15 dicembre 2013 ha sposato Mai Shela e qualche mese dopo è nato il figlio.
“No no, lei è la mia psicologa” rispose con un sorriso, evidentemente abituato al malinteso. Safwat è convinto che la mente sia lo strumento principale per fare il salto di qualità. E allora deve essere allenata, curata, accarezzata.
Per questo preferisce investire su Hend Eissa come mental coach viaggiante, magari rinunciando a qualche settimana con coach Gilbert Schaller o con il preparatore atletico. Cinque mesi dopo, i risultati gli danno ragione: “Sono contento dei progressi effettuati quest'anno – diceva nella club house del CT Firenze – ho avvertito un click e devo solo aspettare che tutti i fattori si mettano insieme.
In quel momento, il ranking prenderà forma”. Profetico: vincendo a Launceston, si è aggiudicato il primo ATP Challenger in carriera. Con i punti intascati in Australia, festeggia un fiammante best ranking al numero 130.
La suggestione è grande, perché arriva esattamente nello stesso giorno in cui Tamer El Sawy raggiungeva la sua miglior classifica: numero 128 ATP, il 10 febbraio 1997. Ventitrè anni dopo, l'Egitto ritrova un potenziale top-100.
Nel 1996, El Sawy vinse il torneo americano del Bronx. Da allora, il Paese era uscito dai radar del grande tennis. “Non riesco a esprimere le mie sensazioni – ha detto Safwat dopo l'ultimo successo – inseguivo questo successo da parecchio tempo.
Ci ho lavorato molto, in passato c'ero andato vicino ma non ce l'avevo mai fatta. Non pensavo di vincere un torneo proprio a Launceston, mai e poi mai. Adesso sto bene e credo che mi darà spinta e fiducia per il resto della stagione”.
Al Launceston International ha lasciato per strada soltanto un set, in semifinale contro Kimmer Coppejans. Nel match clou ha tenuto a basa il padrone di casa Alex Bolt. Negli ultimi 15-20 anni, Paesi limitrofi come Tunisia e Marocco hanno avuto buoni giocatori, vincitori di ATP Challenger.
Adesso che Safwat ce l'ha fatta, chissà che il tennis non possa diventare qualcosa di importante anche in Egitto. “Io ho effettuato un percorso diverso rispetto a chi mi ha preceduto – dice Safwat – mi sono impegnato in tutto quello che faccio, non ho rinunciato ai miei sogni, ho vissuto momenti difficili e parecchi alti e bassi.
Ho avuto la fortuna di essere circondato dalle persone giuste in momenti di frustrazione e tristezza. Credo che i miei risultati possano motivare i giovani egiziani: con le giuste motivazioni e le persone giuste accanto, puoi farcela”.
Non che non conoscesse la vittoria: nella sua lunga carriera, Mohamed aveva intascato 22 titoli Futures, ma i Challenger sono un'altra cosa. Ha dovuto aspettare quasi dieci anni e 133 tentativi falliti prima di sollevare un trofeo.
Non è un caso che arrivi adesso, dopo che aveva conquistato il main draw dell'Australian Open senza perdere neanche un set nelle qualificazioni. Ok, un paio d'anni fa aveva giocato sul centrale del Roland Garros, ma era stato ammesso come lucky loser.
Stavolta, invece, si è conquistato tutto da solo. In realtà aveva lasciato Melbourne con l'amaro in bocca. Opposto a Gregoire Barrere, perse una partita con mille rimpianti: avanti di un set e 4-0 nel secondo, perse in quattro set dopo aver servito due volte per chiudere il secondo set.
Come se non bastasse, aveva avuto un setpoint nel quarto. L'onda positiva è proseguita in Tasmania, laddove ha intascato la sua prima finale dopo quelle perse a Kenitra (2016), Anning (2018) ed Helsinki (2019). “In effetti quando ero avanti 7-6 4-0 in finale ho ripensato a quanto successo a Melbourne, e mi sono detto che avrei dovuto evitare che accadesse di nuovo.
Da certe sconfitte impari, ma sono molto dolorose. Stavolta sono sceso in campo convinto di vincere, giocando come se la mia vita dipendesse da questa partita. Non riesco a trovare le parole per descrivere quello che sto vivendo.
Per me è davvero speciale”. Le emozioni non sono finite qui, perché il 2020 sarà un'anno speciale per lui: e pensare che era iniziato senza grandi premesse, con un'infezione a una vescica che gli ha impedito di effettuare una buona preparazione invernale.
Ha lavorato appena quattro giorni sul campo, ma col senno di poi è stata una fortuna: “In effetti ho svolto una preparazione differente: mi sono concentrato soprattutto sulla mia mente e credo che abbia pagato.
Oggi sono più costante, più calmo, vedo le cose con maggiore chiarezza”. Inoltre ha raggiunto un accordo con Prince, che gli fornirà racchette e incordature. Non era così scontato, visto che soltanto un paio d'anni fa era stato costretto a comprarsi un bel po' di fusti di tasca sua.
E poi è entrato in un programma di finanziamento pubblico grazie al successo agli All Africa Games: la medaglia d'oro intascata la scorsa estate (batté in finale Karim Mohamed Maamoun) gli è valsa l'accesso alle Olimpiadi di Tokyo.
Sarà il primo tennista egiziano a partecipare ai Giochi, ma prima c'è un traguardo da raggiungere: i top-100 ATP. Adesso Mohamed si trova a Bengaluru, India, per proseguire nell'onda positiva, poi si sposterà negli Emirati Arabi per preparare il torneo ATP di Dubai, per il quale ha chiesto una wild card.
Gliela daranno, perché oggi il miglior tennista musulmano è lui. Dopo anni di semina, è giunto il momento di raccogliere.