Per anni, Ons Jabeur ha dovuto battagliare con gli allenatori. Col suo tennis “diverso”, come lo ha definito dopo il successo su Qiang Wang, per anni è stata una scheggia impazzita del circuito. Bella da vedere, talentuosa, ha faticato molto per esprimere il suo potenziale.
Tanti coach hanno cercato di rendere più “tradizionale” il suo tennis, ma si sbagliavano. “Anziché dirmi di non fare la palla corta, avrebbero dovuto spiegarmi che avrei dovuto farla al momento giusto.
La cosa importante era restare concentrata su una sola cosa, anziché avere mille opzioni. Dovevo trovare la giusta strategia”. L'ha trovata all'Australian Open, in cui non si è limitata a chiudere la carriera di Caroline Wozniacki.
Un paio di giorni dopo è diventata la prima tennista araba a raggiungere i quarti in uno Slam. Da bambina sognava il Roland Garros (“Perché la Francia è vicina a casa mia”), laddove ha vinto la prova junior, ma la sua campagna australiana si è tramutata in una fiaba.
In cinque spedizioni a Melbourne non era mai andata oltre il primo turno del main draw, mentre stavolta si giocherà un posto in semifinale, contro Sofia Kenin. Nel 2017 era arrivata al terzo turno del Roland Garros da lucky loser (prima a riuscirci dopo Gloria Pizzichini nel 1993), ma era un periodo complicato, in pieno Ramadan.
E per un'atleta musulmana, beh, non è il massimo non poter mangiare dall'alba al tramonto. In realtà potè usufruire di un'esenzione, ma poi avrebbe recuperato il digiuno in altra data. Stavolta non ha pensieri, ed è orgogliosa di essere diventata un'icona dello sport tunisino.
“In effetti credo di poter ispirare tante nuove generazioni in Tunisia e nel mondo arabo, soprattutto in Africa – dice la Jabeur – se ce l'ho fatta io, significa che non è impossibile. E comunque mi sono allenata in Tunisia dai 3 ai 17 anni, quindi sono un prodotto tunisino al 100%”.
Lo dice col sorriso sulle labbra, con orgoglio. Quando le si chiede dello sviluppo del tennis nel suo Paese, è un torrente di parole. Le piace il ruolo di ispiratrice. “Sembra che i miei successi abbiano una certa risonanza – racconta – ho ricevuto molti messaggi da persone che si sono svegliate alle 5 del mattino.
Spero che abbiano la possibilità di seguirmi, non solo negli Slam, ma in ogni torneo”. La strada intrapresa è giusta: durante la pausa invernale ha tenuto una clinic a Monastir, in cui ha incontrato diversi aspiranti tennisti.
Dopo aver giocato con lei, una bambina è corsa dalla madre e le ha esclamato: “Ho toccato Ons, adesso non mi laverò le mani per una settimana!”. D'altra parte, a dicembre è stata nominata donna araba dell'anno in una cerimonia effettuata a Londra.
Ha incontrato diverse donne arabe di successo, in ogni ambito. Alla fine hanno scelto lei, che ha realizzato la portata del successo soltanto quando è tornata a casa e si è resa conto dell'impressionante copertura mediatica.
“Credo che stiamo migliorando, finalmente il mondo ci sta riconoscendo il giusto status – dice la Jabeur – quando gioco i grandi tornei, provo a mostrare alle donne arabe che non c'è nessuna differenza tra noi e quelle europee o americane.
Vorrei ispirare più donne possibili, in qualsiasi ambito, e credere in se stesse e inseguire i loro sogni”. Secondo la Jabeur, in Tunisia esistono le strutture per creare giocatori di livello. “Ci sono molti club, anche se si gioca soprattutto sulla terra battuta.
Le cose sono cambiate quando ho vinto il Roland Garros junior, anche se c'è stato qualche problema dopo la rivoluzone. Adesso la situazione si è normalizzata. L'unica cosa che ci manca è l'esperienza, soprattutto tra le donne.
Prima di me c'è stata Selima Sfar, ma è stata l'unica. Spero che un giorno io e Malek Jaziri potremo condividere la nostra esperienza”. Ma c'è ancora tempo: prima deve inseguire i suoi sogni, importanti e ambiziosi.
“Vorrei vincere uno Slam, l'ho sempre sognato. So di avere la chance di essere una delle più forti, sto lavorando per questo”. C'è voluto qualche anno affinchè il lavoro fosse quello giusto. La carriera della Jabeur è stata confusa, con tanti cambi di direzione e troppi allenatori.
“Quando ero in Tunisia ho ricevuto diverse offerte dai college americani, ma per me non è mai stata un'opzione. Volevo diventare professionista, e spostandomi negli Stati Uniti non avrei potuto giocare. Però mia madre mi ha imposto di prendere il baccalaureato: ero d'accordo con lei, so che l'educazione è importante.
Il mio obiettivo era studiare, ma senza perdere la concentrazione sul tennis: ce l'ho fatta”. Compiuti 17 anni, è entrata nel programma di sviluppo dell'ITF, denominato “Grand Slam Development Fund”, che le ha permesso di intascare 50.000 dollari per dare impulso alla sua carriera.
Si è spostata in Francia, poi in Belgio, poi addirittura in Slovacchia. Per un periodo – pensate un po' – si è allenata nella remota città di Trnava. “Uscita dal circuito junior, mi aspettavo qualcosa di meglio – racconta – vedevo le mie avversarie piombare tra le top-50, addirittura tra le top-20.
Però il mio gioco è diverso, a volte ho troppa scelta e mi ritrovo a non sapere cosa fare. Però sapevo che un giorno sarebbe successo, dovevo restare paziente. A volte ho perso la speranza, però ho un grande team che mi ha permesso di continuare a sognare”.
Tra loro c'è il marito Karim Mamoun, sposato nell'ottobre 2015, figura cruciale nella sua carriera. Essendo un campione di scherma, ben conosce gli aspetti mentali nella vita di uno sportivo. Come se non bastasse, le fa anche da preparatore atletico.
Il suo tennis è una gioia per gli occhi: si diverte a giocare decine di smorzate, da ogni posizione, ma le sa alternare con botte piatte che lasciano ferma l'avversaria. Uno spettacolo. Con i quarti a Melbourne, è già certa di migliorare il suo best ranking e accomodarsi al numero 46 ATP, non così distante dal picco di Malek Jaziri (n.42), quinto miglior tennista arabo di sempre.
Può superarlo, ma i suoi obiettivi sono ben più ambiziosi, magari raggiungere El Aynaoui, Arazi, Alami ed El Shafei, capaci di raggiungere vette ancora più elevate. Quest'anno vuole entrare tra le top-20 e partecipare al WTA Elite Trophy di Zhuhai.
Ce la può fare, perché ha imparato il giusto bilancio tra talento e allenamento. “Quando avevo 17 anni , gli allenatori provavano a tenermi sotto controllo, mi facevano fare cose che non mi piacevano e non avevo il coraggio di dire di no.
Lavoravo fino a esplodere, mentre adesso so dire di no, sono cresciuta e so prendere le decisioni per conto mio. Il talento senza lavoro non vale niente, ma anche il talento con troppo lavoro vale poco. Se lavori troppo, quello che fai sul campo finisce per non piacerti”. Provare gioia sul campo da tennis: il segreto di Ons, in fondo, è tutto lì.