Nikolay Davydenko, l'eroe dimenticato: “Ma quella partita con Federer...”
by RICCARDO BISTI | LETTURE 24157
Faticava a trovare sponsor anche quando era stabile tra i top-5 ATP. Si era ritirato nell'indifferenza generale, dopo un'anonima sconfitta contro Robin Haase al Roland Garros 2014. Il fisico di Nikolay Davydenko non reggeva più, ergo, anche testa e cuore si sono arresi.
E allora è scomparso dai radar per cinque anni, prima di tornare in punta di piedi, fedele al suo stile. Oggi “Kolya” fa il consigliere, il mentore di Karen Khachanov (che ha appena annunciato l'inserimento di Fredrik Rosengren nel suo staff, già composto dall'head coach Vedran Martic).
L'ex n.3 ATP ha cambiato vita, però lo vedremo in giro anche nel 2020, perché il suo arrivo ha rivitalizzato la stagione un po' anonima del connazionale. Rivederlo nel tour, magari, permetterà di rivalutare una carriera straordinaria, condita da 21 titoli ATP e sublimata da tre Masters 1000 più il trionfo alle Atp Finals 2009, nella prima edizione londinese.
Quando era in piena forma psicofisica, il russo giocava un “Tennis Playstation” fantastico. Gambe rapidissime, timing eccezionale. Uno spettacolo. Non l'hanno mai apprezzato a dovere perché era bruttino: magrolino, calvizie precoce, personalità non esattamente brillante.
Mica facile farsi notare, se accanto a te c'è un certo Marat Safin. Non è mai stata facile, la vita di Davydenko. È nato a Severodonetsk, Unione Sovietica, nell'attuale territorio ucraino. Quando aveva 11 anni, tuttavia, si è spostato a Volgograd, in Russia, per provare a inseguire un sogno con la racchetta in mano.
Davanti a lui, l'esempio del fratello Edouard. Ben presto si è capito chi sarebbe stato il più forte, con il fratello maggiore che si è riciclato nelle vesti di (ottimo) coach. “A Volgograd è stata dura – ha raccontato in una bellissima intervista per Eurosport Russia – mi allenavo alle 6 del mattino, prima di andare a scuola, e poi alla sera.
D'estate, invece, si stava in campo otto ore al giorno. Avrei voluto andare via, ma ho tenuto duro e non ho mai detto ai miei genitori che desideravo tornare a casa”. A Volgograd c'era un ragazzo tedesco che gli consigliò di andare in Germania.
Nel cuore dell'Europa avrebbe potuto dedicarsi solo al tennis, avrebbe avuto una casa, c'erano le gare a squadre per guadagnare qualche soldo... “Dopo alcuni tornei Futures in Italia mi diedero il permesso di soggiorno e mi sono trasferito lì” ricorda con nostalgia Davydenko, oggi tornato a vivere in Russia.
Padre di tre figli (l'ultimo è nato un paio d'anni fa), fino all'anno scorso aveva completamente abbandonato l'ambiente per dedicarsi alla famiglia. “Sono gli anni in cui loro hanno più bisogno dei genitori, in futuro non sarà più così” racconta, dopo aver ricordato che la primogenita Ekaterina, sette anni, gioca benino a tennis.
L'anno prossimo decideranno se provare a farla giocare più seriamente, oppure limitare lo sport ad attività ricreativa. Per “Kolya”, il tennis è sempre stato una cosa seria. All'inizio c'era il problema della sopravvivenza, del mettere insieme pranzo e cena.
Il tutto, in un paese dalla cultura molto diversa. Però gli è servito a crescere... e imparare il tedesco. “All'inizio sapevo tre parole in tedesco e due in inglese, è stata dura. Ho impiegato un anno per imparare la lingua, l'ho fatto senza prendere lezioni, soltanto guardando la TV, in particolare film e cartoni animati”.
Non è rimasto molto in Germania, però oggi comunica meglio in tedesco che in inglese, anche perché ha avuto per anni Ronnie Leitgeb al suo fianco. Lo storico coach di Thomas Muster e Andrea Gaudenzi, a un certo punto, lo aveva portato a un soffio dalla cittadinanza austriaca.
Aveva ottenuto l'OK persino dal cancelliere, poi intervenne il Ministro dello Sport a dire che “era troppo presto”, così non se ne fece più nulla. Kolya ha avuto una grande carriera, solo parzialmente macchiata dal caso del 2007, il suo match a Sopot contro Vassallo Arguello, che aprì il vado di pandora delle scommesse e dei match truccati.
Ne è uscito pulitissimo, a maggior ragione dopo che gli inquirenti avevano rivoltato come un calzino la sua vita in cerca di prove che, evidentemente, non c'erano. Si è anche rotto il polso un paio di volte (2003 e 2010), ma ci sono più soddisfazioni che dispiaceri.
Lo si può considerare uno dei più forti a non aver mai vinto uno Slam, anche se – come detto – si tende a dimenticarlo. Ha giocato quattro semifinali, incagliandosi tre volte su Federer e una contro Mariano Puerta.
Roland Garros 2005, match di cinque set, perso per episodi. “Quello è l'unico grande rimpianto della mia carriera” sussurra, evitando di ricordare che l'argentino sarebbe poi risultato positivo a un test antidoping, effettuato due giorni dopo.
“Ad ogni modo ho vissuto normalmente quelle sconfitte: se non lo fai, finisci dritto in un ospedale psichiatrico”. I suoi anni migliori sono stati quelli del dominio di Federer, che troppe volte lo ha bloccato sul più bello.
Però Kolya, come ogni brutto anatroccolo, è diventato cigno per una settimana. A pensare che nel 2009 si è qualificato per un soffio al Masters: fu decisivo il successo a Shanghai. Inserito nel girone di Djokovic, ne emerse alla grande e poi battè King Roger in semifinale.
Un match fantastico, sublimato dalla vittoria in finale su Del Potro. “Prima di quella partita ero distrutto, il match con Federer era stato molto faticoso. Sono andato da mio fratello e gli ho detto che non riuscivo nemmeno ad alzarmi.
Allora mi ha detto di essere aggressivo, di non accettare gli scambi lunghi e accorciare il match il più possibile”. Detto, fatto. La grande occasione, quella che avrebbe potuto consegnarlo alla storia, è arrivata un paio di mesi dopo, all'Australian Open.
“Kolya” iniziò la stagione vincendo a Doha, con tanto di seconda vittoria di fila contro Federer (nonché l'ultima: il bilancio finale dirà 19-2 per lo svizzero). Con quel carico di fiducia, si presentò a Melbourne e nei quarti pescò proprio lo svizzero.
Dominò il primo set, poi ci fu un toilet break dello svizzero. Da lì, bye bye: 2-6 6-3 6-0 7-5. Federer vinse il torneo in finale su Murray e... sì, c'è la sensazione che lo avrebbe potuto vincere Davydenko.
I due si sono ritrovati un mesetto fa a Shanghai e hanno chiacchierato, scherzando su quel match. “Gli ho chiesto perché fosse andato in bagno dopo il primo set, e mi ha detto che non lo fece. Uscì dal campo perché il sole gli dava fastidio e aspettava che calasse.
Gli ho risposto che mente, che io ero più forte!”. In realtà trascorsero appena tre minuti tra la fine del primo set e l'inizio del secondo, e Davydenko si portò sul 6-2 3-0 prima di perdere 13 game di fila.
Chissà. Una volta ritirato, come detto, è uscito di scena. Dopo la nascita del terzo figlio, l'inseparabile moglie Irina (sposata nel 2006) gli ha detto che poteva anche concedersi qualcosa di diverso dall'accompagnare i figli nei parchi del quartiere moscovita di Tabarka.
Allora ha ripreso a giocare, allenarsi e – soprattutto – allenare qualche ragazzino. Durante un match di Davis tra Russia e Bielorussia ha parlato con Khachanov: lì è nato un contatto che, dopo qualche resistenza, lo ha convinto a seguire il giovane russo a partire da Washington.
Sconfitta immediata, poi però c'è stata la semifinale a Montreal. “A San Pietroburgo è andata male, allora mi sono detto che se avesse giocato male in Asia avrei smesso di allenare: è finita che per poco non vinceva a Pechino.
Sembra che Karen si trovi bene e mi ha chiesto di andare con lui all'Australian Open e a Miami. Non voglio fare il coach a tempo pieno, magari potrei seguirlo per 10-15 settimane. Mia moglie accetta una lontananza di due settimane, ma non di cinque o sei di fila”.
Insomma, non vuole diventare come certi ex giocatori che sono come “drogati” dall'ambiente e non riescono a uscirne. “A Washington ho visto che i coach erano quasi tutti gli stessi di quando giocavo io. È quasi tutto uguale.
C'è gente che sta 20 anni dietro ai giocatori, non hanno figli e vivono in funzione del tennis. Quando ti abitui agli hotel a 5 stelle e tutto il resto, non comprendi che esiste un'altra vita e non vuoi più allontanarti da quella realtà”.
Kolya lo ha fatto, forse perché ricordava quanto ha dovuto soffrire da ragazzino. E allora non c'è nulla di male nel godersi gli oltre 16 milioni guadagnati in carriera, senza necessità di fare chissà cosa.
Però il progetto Khachanov gli piace: “Deve migliorare molto nel gioco di gambe, non sarà mai rapido come me ma ci sono dei margini. Con giocatori così forti, la cosa più difficile è farli ascoltare.
Magari a volte annuisce, ma non ti sta ascoltando per davvero. In questi casi, il coach deve essere bravo a comunicare e trovare il momento giusto per far passare il messaggio”. Fermo restando che, prima di ogni parola con Khachanov, si confronta sempre con Martic.
E probabilmente farà altrettanto con Rosengren. “Credo che dopo il ritiro dei più forti, uno dei nostri migliori giocatori possa diventare numero 1 del mondo. Non so chi sia più forte tra Medvedev, Rublev e Khachanov, ma vedo delle prospettive perché sono ancora piuttosto giovani”.
Giovani, forti e già inseguiti dagli sponsor. L'esatto opposto di Nikolay Davydenko, l'eroe dimenticato del tennis moderno.