“È più facile attraversare i momenti difficili se ti piace quello che fai. Se vuoi veramente qualcosa, troverai un modo. Se c'è il desiderio è più facile allenarsi, viaggiare, combattere sul campo.
Devi solo volerlo. E io lo voglio ancora”
. Parola di Ivo Karlovic, che in queste ore ha compiuto 40 anni. Da quando le classifiche sono stilate dal computer, soltanto quattro giocatori si sono piazzati tra i top-100 ATP una volta entrati negli “anta”: Ken Rosewall, Jimmy Connors, Torben Ulrich e – da un giorno – il gigante croato.I 13.000 ace sparati nella sua lunga carriera sono un dato importante, ma Ivo è molto di più. Un grande personaggio, capace di superare difficoltà economiche, logistiche, di salute. Come quella mattina dell'aprile 2013, quando si è svegliato con il braccio destro rattrappito.
Pensava di aver dormito in una posizione sbagliata, ma quando sua moglie gli ha fatto una domanda, gli è cascato il labbro. In poche ore, ha perso sensibilità al braccio e non riusciva più a parlare. In ospedale, non era in grado di rispondere a domande banali come il suo nome o che anno fosse.
Ha temuto per la sua vita, ha pensato che fosse un ictus, poi ha scoperto che era “soltanto” encefalite. “Per fortuna era virale e non batterica, forse è stato il morso di un ragno”. Piano piano, Ivo ha ripreso ad allenarsi.
Prima cinque minuti al giorno, poi otto, poi dieci, e così via. “Ero terrorizzato quando ho preso il primo aereo, temevo che il problema potesse ricomparire in volo”. Non solo si è ripreso, ma ha vissuto una seconda giovinezza nel 2016, anno in cui è tornato tra i top-20 ATP.
L'ultimo a salire così in alto in età avanzata era stato Ken Rosewall nel 1978. “Non l'ho mai visto giocare, se non su Youtube – dice Karlovic – è un grande onore essere paragonato a lui”.
Lo scorso anno, ha vissuto una stagione complicata. Aveva perso le motivazioni, anche perché ha messo su famiglia e a casa ci sono due bambini che lo aspettano. Dopo lo Us Open, era piombato al numero 138 ATP. “Allora ho fissato un obiettivo: giocare l'Australian Open.
Per migliorare la classifica, ho giocato cinque Challenger. Partecipare a tornei più piccoli mi ha restituito motivazione e ho raggiunto l'obiettivo. Non so se giocherei ancora se non ce l'avessi fatta”. Non solo ha ritrovato i top-100 ATP, ma a gennaio ha colto una finale ATP a Pune.
“Quando avevo 24-25 anni non avrei mai pensato di giocare così a lungo – ha raccontato a Steve Flink in un'intervista celebrativa – speravo di arrivare a 30... Credo di essere durato così tanto per due motivi: il primo è che ho iniziato a giocare bene piuttosto tardi, intorno ai 24 anni, e poi perché ho sempre svolto una buona preparazione fisica”.
Il mondo si è accorto di Karlovic nel 2003, quando batté a suon di ace il campione in carica di Wimbledon, Lleyton Hewitt, sul prato ancora intonso del Centre Court. “Quando mi sono guardato intorno, mi è sembrato che quel momento durasse un'ora e e mezza.
Ma poi mi sono concentrato sulla partita e ho capito che posso giocare con i migliori. Che questo mondo mi appartiene”. Flink gli ha poi ricordato gli scontri diretti contro i Big Three: una volta ha battuto Federer (Cincinnati 2008, quando salì al n.14 ATP), mentre è uno dei pochissimi ad avere un saldo positivo con Djokovic.
“Dicono 2-1, ma in realtà siamo 3-1 perché nel 2005 l'ho battuto nelle qualificazioni di Madrid”. Contro Nadal è andato vicino al successo, ma non ce l'ha mai fatta. “Probabilmente Djokovic è quello con cui mi sono trovato meglio, ma se guardiamo i risultati e i picchi di rendimento, è lui il migliore”.
Frase pesante, specie se a pronunciarla è un croato ce ha vissuto in prima persona gli orrori della Guerra dei Balcani, da cui è scaturita la scissione tra Serbia e Croazia. La vita di Karlovic, classe 1979, si è inevitabilmente intrecciata con la storia del suo Paese.
Una vicenda affascinante, eppure non così nota. “Ho iniziato a giocare a 6 anni, anche se il tennis non mi piaceva molto. In Croazia si parlava soprattutto di calcio, mentre pochi conoscevano le regole del tennis.
Nel 1985 ho visto la prima vittoria di Becker a Wimbledon: mi piaceva la sua racchetta argentata, ma era costosa e introvabile”. Quando Becker era ormai passato al modello rosso e blu, nel 1990, Karlovic trovò una versione economica e usata della racchetta color argento che aveva scritto la storia.
“Me la sono portata dietro ovunque”. Negli anni della dittatura di Tito, lo sport era gratuito per i bambini. “Per me fu una bella cosa, perché i miei genitori non avevano molte risorse. Ma quando avevo 11 anni è iniziata la guerra e per tre anni è stata dura giocare a tennis: era pericoloso, perché gli aerei sorvolavano le città mentre noi eravamo nei rifugi sotto terra.
Alla fine della guerra, il tennis è diventato molto costoso. Quindi aspettavo la sera per giocare, quando i campi erano liberi, ma non avevo compagni. E allora ho passato un mucchio di tempo a provare i servizi. Credo che questo spieghi molte cose”.
Gli oltre 13.000 ace sparati in carriera sono nati così. Karlovic non fa troppa mistica sul suo servizio, ma si limita a sostenere che i radar rilevano una velocità inferiore rispetto a quella reale perché il suo servizio parte da molto in alto.
“Non guardo nemmeno le velocità che rilevano. L'altezza aiuta a trovare gli angoli, ma quando si entra nello scambio sono svantaggiato sulle palle basse e nei movimenti. Credo che l'altezza ideale sia quella di Raonic, anche se non è in grado di tirare il mio stesso numero di ace!”.
Nonostante il servizio devastante, Karlovic ha vinto soltanto il 50% dei tie-break giocati, ma il dato non lo sorprende: “Capita spesso che una partita si giochi su due punti”. Come il secondo turno dell'Australian Open, in cui si è trovato avanti 7-5 nel super tie-break del quinto contro Kei Nishikori, ma poi ha perso gli ultimi cinque punti.
Ha patito il contraccolpo, visto che da allora non ha più vinto una partita tra Montpellier, New York e Delray Beach. Ma Ivo non molla, anzi, rilancia. “Negli ultimi due anni non ho avuto infortuni, quindi ho potuto lavorare bene.
Oggi sono più in forma che mai e non ho problemi negli spostamenti”. E poi, nulla è in grado di spaventarlo. “A inizio carriera, ci sono stati momenti in cui non vedevo via d'uscita. Per andare avanti, ho giocato le gare a squadre in Croazia, Slovenia e Germania.
In altri paesi è più facile emergere, mentre io non ho avuto nessun aiuto. Ho fatto tutto da solo, dunque sono orgoglioso di aver giocato così a lungo”. E non è finita.