L'ultima volta che il Sudafrica aveva avuto due top-100 ATP risaliva a quindici anni fa. Era il 23 febbraio 2004, i protagonisti erano Wayne Ferreira (n.47) e Wesley Moodie (88). Da allora, il Paese è entrato in una crisi tecnica notevole.
Le cose sono cambiate con Kevin Anderson, finalista in due prove del Grande Slam (Us Open 2017 e Wimbledon 2018). Ma Anderson vive negli Stati Uniti da tempo, per anni ha rinunciato a giocare in Coppa Davis e torna raramente in Sudafrica.
Per questo, i media locali sono diventati “pretty crazy”, per dirla con il diretto interessato, quando Lloyd Harris ha festeggiato il suo ingresso tra i top-100 ATP. Non ci credevano in molti, lui stesso non era convinto, visto che fino ai 14 anni di età giocava soltanto un paio di volte a settimana.
Sapeva che il tennis era il “suo” sport, ma – su spinta dei genitori – si dedicava anche a rugby, cricket e atletica leggera. Harris è un sudafricano puro, profondamente legato alle sue origini.
È nato a Città del Capo e ci risiede ancora, avendo trovato la sua dimensione presso la Anthony Harris Tennis Academy. Il responsabile della scuola (con cui non ha alcun legame di parentela) è stato una notevole fonte di ispirazione.
Ex buon giocatore, gli ha detto fin dall'inizio che avrebbe avuto la qualità per diventare un ottimo tennista. Ha dovuto lavorare molto sull'autostima, giacché Lloyd aveva mille dubbi. Ma la crescita è stata lineare: prima tanta attività Futures (con tanti tornei giocati in Africa per ragioni di comodità logistica: il suo primo titolo è arrivato addirittura in Mozambico), poi il salto nei tornei Challenger.
Ne ha vinti tre: Lexington e Stockton nel 2018, Launceston qualche settimana fa. Proprio il titolo in Australia gli ha permesso di entrare tra i top-100 ATP. Harris rimane il suo punto di riferimento, ma in giro per il mondo si fa accompagnare da Eitan Adams.
“Ho fatto un percorso difficile, senza aiuti e nemmeno wild card – racconta con orgoglio – credo di essermi meritato tutto quello che ho ottenuto. Entrare tra i top-100 ATP è tra gli obiettivi di ciascun giocatore, adesso voglio provare a costruire partendo da qui”.
Per farlo, ha scelto un consigliere d'eccezione: Wayne Ferreira, leggenda del tennis sudafricano (n.6 ATP nel 1995). I due si sono ritrovati questa settimana a Delray Beach, laddove Harris ha ottenuto una wild card e Ferreira è impegnato con l'ATP Champions Tour.
Lo seguirà per tutto il torneo, dopodiché inizieranno alcune settimane di prova per capire se può nascere una collaborazione. “Il nostro punto di riferimento rimane Kevin Anderson – ha detto Ferreira, parlando del tennis sudafricano – però dobbiamo guardare al futuro ed è importante che ci sia qualcuno a ispirare i giovani”.
Per questo si è messo in prima linea, ed è convinto che Harris sia il cavallo giusto su cui puntare: “Fisicamente è molto preparato, sono convinto che possa diventare un ottimo giocatore” aveva detto la scorsa estate.
Harris si è qualificato per gli ultimi due Slam (Us Open e Australian Open), e al torneo di Chengdu ha colto la più bella vittoria in carriera, contro Gael Monfils. Lo scorso anno, di questi tempi, si trovava a stento tra i top-300 ATP.
Chi gli sta vicino lo ha invitato a non arrendersi, anche perché i suoi risultati possono essere una fonte di ispirazione per i giovani sudafricani. Qualche anno fa, aveva rischiato di smettere. “Se mancano i tennisti sudafricani non è perché non ci sia il talento.
Purtroppo mancano le risorse economiche: se non vieni da una famiglia particolarmente ricca, diventa difficile poter viaggiare liberamente. Con il giusto sistema, ci sarebbe il potenziale per avere diversi top-1000. Molti sudafricani di talento scelgono il sistema universitario americano anziché tentare la via del professionismo, un po' come aveva fatto Kevin Anderson”.
Tuttavia, sta cambiando qualcosa. Da qualche tempo, la federtennis sudafricana (Tennis South Africa) ha un nuovo amministratore delegato, Richard Glover. Al suo arrivo, disse che il tennis sudafricano era un “gigante addormentato” da risvegliare.
Tra i progetti più interessanti del nuovo corso federale c'è la “Match Point Foundation”, composta da alcuni giocatori che provano a condividere con i ragazzi quello che hanno imparato nel tour. Anche Harris ne ha beneficiato.
Ai tempi del suo insediamento, Glover diceva che ci sarebbero voluti cinque anni per ottenere i primi risultati: grazie a Lloyd Harris, la bontà del nuovo sistema sembra certificata. Rimane un problema: il tennis è ancora “dominato” dagli atleti bianchi.
Nonostante l'apartheid sia terminata da moltissimi anni, certi retaggi culturali sono difficili da abbattere. Nella storia recente, il Sudafrica ha prodotto soltanto un tennista di colore (il doppista Raven Klaasen, peraltro vittima di un disgustoso episodio di razzismo qualche anno fa: Brydan Klein lo chiamò con il termine dispregiativo “kaffir”).
I motivi sono principalmente economici, perché i bianchi hanno ancora un potere di spesa maggiore. Tuttavia, qualcosa sta cambiando: se andiamo a vedere i campionati nazionali giovanili, il rapporto tra partecipanti bianchi e neri ha raggiunto il 50%.
Tennis South Africa ha un obiettivo: portare il tennis al quarto posto tra gli sport più popolari del Paese, alle spalle degli inarrivabili rugby, cricket e calcio. “Quelli non li raggiungeremo mai, ma ci sono tutte le possibilità per arrivarci dietro” ha detto Glover.
Per raggiungere l'obiettivo, paradossalmente, Lloyd Harris può essere più importante di Kevin Anderson perché è un modello accessibile, replicabile. Lui è rimasto in Sud Africa, scegliendo la via più difficile per arrivare. E non è un caso che tra le persone che vorrebbe invitare a cena ci sia un certo Nelson Mandela.
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