Sabato prossimo inizieranno le qualificazioni del torneo ATP di Rio de Janeiro, ma Marco Trungelliti non ci sarà. L'argentino, numero 117 ATP, ha cambiato i suoi programmi. Dopo aver perso a Buenos Aires, pensava di restarci fino a giovedì per poi andare in Brasile.
Invece è scappato via, come un ladro, insieme alla moglie Nadir. Tornerà ad Andorra, dove risiede, per dormire tranquillo. “Non si può continuare a giocare così, con la testa bruciata” ha detto.
Marco Trungelliti non è un eroe, ma un uomo che ha fatto il suo dovere. Ne sta pagando le conseguenze. Isolato, guardato male, offeso. Gli sguardi di disprezzo nello spogliatoio ti tagliano lo sguardo, penetrano nell'anima e ti svuotano di energia vitale.
Ma poi, perché? Soltanto perché sei una persona onesta?
Parlando con Sebastian Torok, ottimo cronista de “La Nacion”, Trungelliti ha raccontato la sua storia. Nel 2015, quando arrancava fuori dai top-250 ATP, una persona di sua “fiducia” lo ha messo in contatto con un potenziale sponsor.
Speranzoso di dare una svoltarella alla sua carriera di operaio della racchetta, Trungelliti si è presentato all'appuntamento da solo, in un bar di Belgrano, quartiere di Buenos Aires. Quelli come lui non hanno un manager che ne curano gli interessi.
Dopo pochi minuti, ha capito che lo sponsor non esisteva. O meglio, lui sarebbe stato lo sponsor di se stesso.
Vendendo le partite. Infangando l'essenza dello sport.
I giorni successivi sono stati duri. Forse avrà pensato a quando era un bambino che sognava di diventare un campione.
E magari si sarà domandato che cosa avrebbe pensato di lui, quel bambino, se avesse ceduto alla tentazione di un tariffario che prevedeva 2-3.000 dollari per una partita persa nei Futures, 5-10.000 in un Challenger, 50-100.000 nel circuito ATP.
I bambini sono la nostra coscienza. Ogni tanto non farebbe male (ri)guardare il mondo con i loro occhi. Marco Trungelliti lo ha fatto e ha preso contatto con la Tennis Integrity Unit, il corpo investigativo che da oltre dieci anni prova a disinfestare il tennis dalla monnezza delle partite truccate.
“Ditemi cosa devo fare – scriveva il 14 agosto 2015, in una mail che tradiva il suo stato emotivo – di questa persona conosco il nome, il numero di telefono e alcune cose che mi ha detto”. Per esempio, gli aveva detto che “lavorava” con otto tennisti, non solo argentini.
La TIU ha subito preso contatto con lui e sono iniziate le indagini. Prima gli hanno chiesto le prove, sotto forma di screenshot, poi lo hanno ascoltato, infine gli hanno consigliato di non rispondere a qualsiasi tentativo di approccio.
E lui ha continuato a giocare, più o meno tranquillo. Nel 2016 e nel 2017 lo hanno lasciato in pace, al punto che nel settembre 2016 ha avuto l'ardire (o l'ingenuità) di raccontare questa storia durante una cena del team di Coppa Davis, di cui era sparring partner, durante la semifinale contro la Gran Bretagna.
Pensava che certe cose sarebbero rimaste a tavola, invece sono emerse e qualcuno ha iniziato ad “affrontarlo”. Tra i giocatori presenti nella rubrica telefonica del corruttore c'erano Nicolas Kicker, Federico Coria e Patricio Heras.
Tutti e tre stangati nel 2018, chi più, chi meno. Nel dicembre 2017, mentre preparava la stagione a Barcellona, Trungelliti è stato contattato dagli avvocati della Tennis Integrity Unit, i quali gli hanno chiesto di testimoniare in alcuni “processi”.
Lui non sapeva di quali processi si trattasse. Erano legati ai suoi connazionali. Le sue testimonianze sono arrivate in videoconferenza. E gli è capitato di vedere in faccia Nicolas, Federico e Patricio, che in quel momento si trovavano a Miami.
Qualche mese dopo sono arrivate le squalifiche (la più pesante per Kicker), ma per lui è iniziato un calvario ancora più pesante. Nello spogliatoio hanno iniziato a guardarlo male, a escluderlo, a tenerlo a distanza.
Gli hanno dato della “talpa”, e anche del “traditore”. Lui si difende. “Non ho venduto nessuno, ho soltanto parlato di me. Gli investigatori hanno collegato quel numero di telefono ad altri giocatori”.
Pur essendo orgogliosamente argentino, ha abbandonato il Paese da tempo. Sapendo come funzionano le cose da quelle parti, ha avuto paura di tornarci. Non voleva. “Sanno cosa faccio, dove abito” ha detto. Però i tornei di Cordoba e Buenos Aires erano funzionali alla programmazione, così è tornato in Argentina.
La situazione si è fatta via via più insostenibile a causa di quegli sguardi, quelle mezze parole, il velato disprezzo, i soprannomi da “infame”. E così Trungelliti, dopo averci pensato a lungo, ha raccontato la sua verità.
Difficile contestarla perché ci sono le prove documentali, le testimonianze registrate. Alcuni passaggi sono di uno squallore unico: gli avvocati dei suoi colleghi lo hanno accusato di aver fatto questa denuncia perché aveva un cattivo rapporto con loro.
In realtà, non aveva denunciato nessuno ma soltanto parlato della sua situazione. La verità è che Marco Trungelliti vive male, da escluso, come se fosse lui a trovarsi sotto processo. A parte buona parte dei membri del team che ha vinto la Davis nel 2016, in tanti gli hanno voltato le spalle.
E gli hanno fatto passare persino la voglia di allenarsi e giocare. Queste persone hanno già raggiunto un obiettivo: Trungelliti non giocherà il torneo ATP di Rio de Janeiro, anche se la settimana successiva tornerà in Sud America per quello di San Paolo.
La storia di Marco Trungelliti non può passare sotto silenzio. Per esempio, le istituzioni – ATP in primis – dovrebbero prendere posizione a suo favore. Si parla tanto di integrità, ma l'impressione è che ci sia tanta – troppa – ipocrisia.
A microfoni spenti qualcuno parla, ma quando il registratore si accende certi argomenti diventano tabù. E Trungelliti ha ragione quando dice che nel mondo del tennis c'è tanta falsità, non soltanto da parte dei giocatori.
Alcune offerte indecenti gli sono arrivate persino dagli allenatori dei suoi avversari. “Ci sono alcuni che dicono: 'quello si vende le partite' ma poi ci si allenano insieme. Queste cose non le accetto. Se sei contro la corruzione e poi vai a cena con queste stesse persone... non lo capisco”. Neanche noi.
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